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#SiamodiVetro

Cosa c’è di più innaturale di una mascherina fra mamma e figlio? Sapendo, e qui sta il paradosso, di essere entrambi negativi al Covid, seduti in una stanza con un’infermiera (anch’essa negativa) e nessun altro bambino ricoverato. Eppure abbiamo vissuto anche questo. Premetto, non voglio scrivere polemiche,lamentele e tanto meno essere compatita (non risponderò qui a messaggi sull’accaduto). Stiamo tutti bene e questo basta. Ma vorrei fare tesoro anche di questa esperienza allargando il punto di vista e cercando, per così dire, una lezione di vita ad ampio spettro. Posso parlarne con serenità perché il tempo ha già provveduto a quietare gli animi.
Sono entrata in ospedale il 22 maggio, per il parto, e sono uscita con Filippo il 3 giugno. Il tanto atteso “3 giugno” in questo surreale, incontrollabile, periodo di isolamento. Avevo sorriso quando, circa otto mesi fa, le ostetriche e il ginecologo, che mi hanno seguito, profeticamente mi avevano anticipato che la terza gravidanza sarebbe stata “la gravidanza della consapevolezza”, un percorso non facile ma necessario. Lo tsunami emotivo è cominciato a gennaio quando, a malincuore, ho dovuto interrompere l’insegnamento e ridurre gli spostamenti per “gravidanza a rischio”. La quarantena ha rincarato la dose e le contrazioni precoci hanno ulteriormente limitato i movimenti fino al riposo quasi assoluto. L’apoteosi della prova è arrivata quando, una volta partorito e pronta per la dimissione veloce dall’ospedale non ho più saputo nulla del mio bimbo per 22 ore. Il “signor Covid” non mi permetteva di vederlo senza l’esito del tampone. Si è scatenato il mio peggior Mr. Hyde con tanto di “Portatemi qui il primario”. A distanza di settimane rimango ancora basita di me stessa ma, anche questo, è stato un passaggio necessario. Fa bene conoscere ed esplorare il lato meno buono di sé.
 
Dove voglio arrivare? Voglio dire, con questa personale esperienza, che questo minuscolo è stravolgere virus ci ha messi in ginocchio e ha mandato in tilt il sistema. Ma anche questo è stato un passaggio necessario per fare luce. Nel bene e nel male abbiamo sperimentato cosa significa concretamente vivere il presente, accettando lo stare nel “qui e ora”. Non ieri, non domani ma ora. Adesso. Abbiamo sperimentato il vuoto, l’assenza dei nostri cari e dei nostri luoghi, l’impossibilità di programmare. A forza di ribellarci alla fine abbiamo cominciato ad ascoltare questo tempo di stasi forzata, questo non fare e, senza fatica, abbiamo ben capito quello che conta di più. “La quarantena è arrivata per guarirci”, mi ha detto un giorno mio papà al telefono. Quarantena sta per 40 e, simbolicamente indica una purificazione: 40 sono i giorni di digiuno e di prova di Gesù nel deserto, la Quaresima prima della festa di Pasqua, e infine, 40 sono le settimane in cui si forma un essere umano nel grembo della madre.
“La quarantena è arrivata per guarirci”. Guarire per noi, oggi, significa “far tornare in sanità chi è malato”, nel passato invece significava “difendere attraverso l’osservazione”. Osservare, “ob-servare “, è considerare con gli occhi fisici e quelli della mente, rivolgere gli occhi alla luce. Quindi guarire rimanda all’atto di osservare volgendo lo sguardo verso la Luce. È interessante questa etimologia.
In questi lunghi giorni di isolamento non sono certo mancati i momenti di sconforto e di rabbia ma la “clausura” ci ha fatto conoscere un nuovo mondo, e non parlo solo quello a “200 metri da casa”, realtà lontane, pareri diversi, una vera ricchezza (paradossalmente, in questa quarantena ho conosciuto tante bellissime persone, virtualmente s’intende) abbiamo capito quali situazioni non vogliamo più ripetere dopo il lockdown e così abbiamo sentito quali persone ci mancavano tanto e quali, invece, proprio per niente. Ci voleva la quarantena per farci vivere senza maschere (e non mi riferisco a quelle in TNT). Dopo tutti questi spunti importanti e stimolanti mi sorge la (scandalosa) domanda :ma San Francesco lo avrebbe chiamato “fratello Covid”? Credo che, dopo tutta questa storia, non ci si debba fermare a guardare se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto. Se è vero che “siamo di vetro”, fermiamoci piuttosto a vedere quanta luce ci attraversa. E ringraziamo, ancora una volta, di essere QUI. Qui e ora. 
 
Francesca Rizzo Mella