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Aung San Suu Kyi: l’arpa birmana

Dossier “Donna e pace” 14

 







 

 


Aung San Suu Kyi è figlia del generale Aung San, che combatté coraggiosamente per l’indipendenza della Birmania dal dominio inglese e dall’occupazione giapponese, assassinato nel 1947 assieme a molti membri del governo. Suu Kyi aveva allora solo due anni, ma di fatto raccolse tutta l’eredità del padre a favore della libertà e della democrazia nel suo paese. Scrive di lei il marito: “Vi è una certa inevitabilità nel modo in cui lei, come lui a suo tempo, è ora divenuta simbolo di speranza e aspirazione popolare. Nella figlia, come nel padre, leggenda e realtà, parola e azione sembrano coincidere in modo straordinario. Eppure, prima del 1988, non era mai stata sua intenzione intraprendere qualcosa di tanto impegnativo”.


 







 

 


Era nata a Rangoon, la capitale birmana, ma aveva studiato prima in India e poi in Inghilterra, era stata funzionaria all’ONU; nel 1972 aveva sposato Michael Aris, professore ad Oxford ed aveva avuto due figli. Ritornerà a Rangoon da sola nell’aprile del 1988 per assistere la mamma gravemente ammalata. Proprio in quei mesi, il generale Ne Win, capo dello Stato con un golpe militare dal 1962, indisse un referendum perché la popolazione decidesse il suo futuro. La popolazione scelse, ma il generale non riconobbe l’esito del referendum. Da qui la rivolta popolare, il cui cuore era la casa di Aung San Suu Kyi, dove si incontravano studenti e molte altre persone.


 







   

Suu Kyi, una donna dall’aspetto fragile, ma coraggiosissima e determinata, cominciò a tenere dei discorsi girando per la Birmania: ne farà più di mille. Scrive ancora di lei il marito: “Non riuscirò mai a capire come Suu riuscisse a dividere equamente i suoi sforzi tra l’assistenza alla madre morente e la guida alla lotta per la democrazia nel suo paese. Credo abbia a che fare con il suo senso del dovere e la sua sicura intuizione di ciò che è giusto e sbagliato, qualità che per alcuni diventano un peso morto, ma che lei sa portare con estrema grazia”.


Dopo la morte della madre riuscirà a raggiungere i villaggi più lontani parlando di non violenza, di diritti umani, di disobbedienza civile, sempre fortemente osteggiata dalle autorità, finché a luglio dell’89 i militari la mettono agli arresti domiciliari. Suu Kyi inizierà lo sciopero della fame, mentre i militari insediano il “Consiglio di Stato per il ripristino della legge e dell’ordine”, presieduto dal generale Saw Maung. Sarà allora che lei, assieme ai suoi consiglieri, fonderà la Lega Nazionale per la Democrazia, la quale vincerà le elezioni dell’anno successivo (1990) con l’80% dei consensi.


Naturalmente le elezioni non vengono riconosciute e Suu Kyi continuerà ad essere relegata nella sua villa di Rangoon, mentre il marito e i figli sono ad Oxford impossibilitati a raggiungerla.


 







 

 


La sua azione le farà meritare il premio Nobel per la pace del 1991, in quanto considerata “uno dei più straordinari esempi di coraggio civile degli ultimi decenni”, ma questo non motiverà i militari a lasciarla libera. Sarà relegata in casa fino all’estate del 1995, quando l’impatto sull’opinione pubblica internazionale del film Oltre Rangoon, del regista John Boorman, ambientato in Birmania al tempo degli scontri del 1988 con i democratici guidati da Aung San Suu Kyi a capo della resistenza, porterà la giunta militare a toglierle gli arresti domiciliari. Suu Kyi rifiuta però l’offerta di esilio permanente che le viene fatta ed ancora oggi è lì a dire: “Non vado da nessuna parte se non verso la mia meta: la transizione democratica attraverso un governo civile”.


L’arpa birmana continua a rimanere al suo posto di sentinella, mite e forte, inflessibile e paziente, consapevole che “non è il potere che corrompe, ma la paura”, come scrive nel saggio che le ha procurato il “Premio Sakharov per la libertà di pensiero” da parte del Parlamento europeo.