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La gioia ce la metto io

Le riflessione della teologa Stella Morra per il “dopo pandemia”

* riportiamo di seguito il contributo di Stella Morra pubblicato sull’Osservatore Romano [fonte qui

Come si sentiva Lazzaro uscito dalla tomba? Facile immaginarlo felice
di essere tornato in vita… Ma ne siamo certi? Sarà stato semplice per
lui abbracciare gli amati? E coloro che lo piangevano, quali gesti
avranno ritrovato con lui? Immediati, certo… ma anche il giorno dopo e
quello dopo ancora.
Mano a mano che la straordinarietà dell’evento veniva a poco a poco
sovrastata dalle esigenze delle questioni comuni (mangiare, dormire,
lavorare, parlare di cose irrilevanti, sorridersi…) e tutti erano stati
precipitati improvvisamente dalla scompostezza (socialmente accettata)
di un lutto doloroso, fatto di lacrime e di emozioni, ad una nuova
“normalità”, che cosa davvero è successo?
Questa immagine evangelica, per quello che non racconta, mi tormenta
in questo tempo in cui sembriamo uscire da una eccezionalità (almeno in
Italia, e almeno per ora) e apparentemente rientriamo in una progressiva
“normalità” che non è normale per niente. E non tanto per le
mascherine, per i gesti di distanza come nuovo valore sociale, per la
complicazione di prenotare ogni cosa….

Normale non è per niente perché siamo tutti segnati, il virus ci ha
arati rivoltando le zolle profonde e portando alla luce molto (troppo?),
e non abbiamo un vocabolario condiviso per dirlo, perché abbiamo
bisogno di tempo per capire i nostri stessi movimenti profondi, non
riconosciamo noi stessi, né gli altri, siamo a pelle scoperta e non ci
piace, ogni reazione è sproporzionata e nessuno è esente e dunque in
grado con un po’ di pazienza e forza di “reggere” la stranezza
dell’altro. Abbiamo paura della parole, quelle che diciamo e che
ascoltiamo, che sembrano non corrispondere più lontanamente a nulla.

Credo che esperti in materia (psicologi di stress post traumatici,
psicologi sociali, antropologi, filosofi…) potrebbero meglio di me e con
maggior completezza descrivere e spiegare. E mi auguro davvero che,
accanto a task force sanitarie ed economiche, qualcuno pensi ad uno
sforzo collettivo di intellettuali che immaginino una task force
antropologica che ci aiuti, tutti, a ritrovare parole, gesti, corpi
umani. Credo sia davvero urgente.
Al gesto di forza maschile (e squisitamente da pastore) del 27 marzo
di Papa Francesco che si è preso il mondo sulle spalle, dovrebbe seguire
ora una femminile (le sorelle di Lazzaro? Le levatrici dell’Esodo?)
ricucitura paziente, come quella di quel Dio-madre che alla fine del
capitolo 3 di Genesi ci viene detto aver pietà della vergogna provata da
Adamo e Eva per la nudità dopo il peccato, e che cuce per loro delle
tuniche.
Abbiamo bisogno di nuove tuniche per la vulnerabilità che ci
imbarazza della nostra pelle scoperta, e non serve tentare di rimettere
insieme i brandelli di quelle vecchie.

Altri, dicevo, sapranno meglio descrivere e spiegare: vorrei qui
condividere solo qualche riflessione da credente, sul frattempo, mentre i
pensieri crescono e la parole nascono e trovano la loro esattezza nel
dialogo e nella pazienza.
Pensieri poveri e da poveri, di chi riconosce la propria vulnerabilità come un kairos,
un passaggio del Signore, di chi non cerca rettitudine ad ogni costo,
ma piuttosto inclinazione alla vita e al soffio dello Spirito. «Quando
sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?» (Sal 10,
3): la domanda è legittima, al tempo del salmista come oggi. Ma la
domanda del salmista va letta attraverso Cristo, unico giusto che si è
fatto povero e questo, mi sembra, significa innanzi tutto riconoscere
noi stessi dalla parte dei vulnerabili perché incapaci di tutta la
giustizia che servirebbe, più simili ad Adamo e Eva in questo contesto
storico, che alla fierezza del salmista.
Dobbiamo prenderne atto: non siamo in grado di ristabilire oggi la
giustizia e la esattezza dei gesti e delle parole, ma non per questo
abbiamo meno bisogno di gesti e parole che nutrano ogni giorno, che
siano gesti e parole capaci di provvisorietà, di incertezza, di
congiuntivo e condizionale, di reggere la nostra stessa inadeguatezza.

Parole e gesti dialogici: ricominciamo, nel frattempo, da qui, dalla
nostra estraneità a noi stessi e dal riconoscere l’altro (anche il più
amato, anche il più conosciuto) come un nuovo straniero, da reincontrare
con delicatezza e reimparare senza dare nulla per scontato.
È questo un tempo in cui i credenti potrebbero dare la bella
testimonianza di un nuovo “corteggiamento” tra umani, piccole magie,
distanze e vicinanze, delicatezza che consentano di rallentare almeno la
crescente aggressività… Perché la vita è (anche) adesso e perché le ferite vanno medicate con dolcezza, le proprie come le altrui.
Gesù, il giusto povero, ci ha lasciato, per il frattempo, un
Consolatore: mi sono sempre chiesta perché questo attributo a quello
Spirito che in altri tempi della mia vita sentivo di più come creatore e
creativo, generatore, innovatore… Oggi vedo almeno un motivo chiaro:
quando sono scosse le fondamenta serve un Consolatore, così riscriverei
il salmo.

E se la prima scuola sono parole e gesti dialogici, la seconda è
raccogliere frammenti: alla fine del grande miracolo della
moltiplicazione dei pani (cfr. Gv 6, 1-13), il Signore comanda ai suoi di raccogliere i pezzi avanzati «perché nulla vada perduto» (Gv 6, 12). Normalmente si liquida quel versetto, come il segno di un’abbondanza: tutti ne hanno mangiato e ne è ancora avanzato.
Ma perché bisogna raccogliere i pezzi? C’è stato il miracolo, tutti
si sono nutriti… Mi sembra che questo invito corrisponda al nostro
tempo: nel miracolo della misericordia, oggi, dobbiamo raccogliere i
pezzi perché nulla vada perduto, cioè mettere in ceste perché ci sia
pane ancora per altre fami, dobbiamo raccogliere gli scarti
(direbbe Papa Francesco), i pezzi avanzati in queste esperienze dolorose
e considerarli preziosi, riempire le ceste perché nutrano la fame.Nessuna presunzione dell’intero e del sufficiente, tanto meno del
moltiplicato: la pazienza dello scarto che basta forse solo per oggi,
raccolto e diviso.Non so, non sappiamo: per questo non sprechiamo nulla, che nulla vada
perduto, dolore, fatica, confusione, ma anche affetti irriconoscibili,
nuove estraneità, nuovi doni….
Sapremo dare la bella testimonianza di credenti che non sprecano
nulla e che dagli scarti ricevono il dono che dividono per vivere
ancora, vivere di nuovo, vivere nella lieta speranza?

C’è una poesia di Mariangela Gualtieri (Bestia di gioia, 127)
che mi accompagna in questi tempi e che, come accade con la poesia,
sopporta molti livelli di lettura: poesia d’amore? Poesia che riguarda
il mondo? Poesia politica? Per me si tratta, oggi, del modo dialogico e
frammentato in cui esprimo ciò per cui prego, ciò che spero e credo Dio
stia dicendo a ciascuno di noi:

C’è nella tristezza un contagio
amore mio, e da questo si vede
che abbiamo fatto comune cuore
e siamo uno che pare due.

Allora io
insemino la gioia
in questa cosa che non consiste
però esiste e tiene entrambi appesi.
La gioia ce la metto io.