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25 novembre: non basta dire «io amo le donne»

L’articolo di Rita Torti nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

[riportiamo di seguito l’articolo di Rita Torti pubblicato da Il Regno delle donne, fonte: qui]
Fra l’educazione di genere e la violenza maschile
contro le donne c’è un legame stretto, che da tempo le scienze della
cultura e quelle psico-pedagogiche hanno individuato e analizzato.
La questione, in estrema sintesi, sta nel tipo di maschilità egemone
elaborato e trasmesso nei secoli passati e fino ad oggi: essendo fondato
sull’inferiorizzazione del femminile e sulla
legittimità del dominio maschile, esso ha un rapporto strutturale, di
continuità, con la violenza degli uomini nei confronti delle donne: ne
costituisce il terreno di coltura, il retroterra in qualche modo
legittimante, l’orizzonte simbolico.
L’indagine sulla costruzione della soggettività maschile
– cioè sul tipo di educazione di genere che si è sedimentata nel tempo –
è quindi un elemento senza il quale ogni campagna di sensibilizzazione,
ogni azione di contrasto, ogni discorso morale rimangono deboli e
inefficaci.
Su queste acquisizioni si appoggiano le pratiche educative di quante e
quanti intendono guardare in faccia e scardinare un fenomeno che ha
molti volti, è devastante e onnipresente, spesso sommerso ma altrettanto
spesso talmente “normale” da diventare invisibile. In questa stessa
logica si pongono, nel nostro paese, le Linee Guida Nazionali sul comma 16 della Legge 107/2015 sulla riforma scolastica.
 
UNA VIOLENZA SENZA RESPONSABILI?

Non sembra invece tenerne sufficientemente conto il documento vaticano «Maschio e femmina li creò. Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione» (di cui abbiamo già parlato in questo blog), che pure afferma la positività degli studi di genere e la volontà di porsi in dialogo con essi.
La parola violenza compare infatti una sola volta, usata in
modo generico e sorprendentemente senza riferimento al rapporto tra i
sessi
(n. 16): Appena prima (al n. 15), l’unico punto in cui il testo si avvicina al tema è così formulato:

«Non di rado […] i progetti educativi hanno la condivisibile e
apprezzabile esigenza di lottare contro ogni espressione di ingiusta
discriminazione. Essi perseguono un’azione pedagogica, anzitutto con il
riconoscimento dei ritardi e delle mancanze. Non si può negare, infatti,
che nel corso dei secoli si siano affacciate forme di ingiusta
subordinazione che hanno tristemente segnato la storia, e che hanno
avuto influsso anche all’interno della Chiesa. Ciò ha comportato
rigidità e fissità che hanno ritardato la necessaria e progressiva
inculturazione del genuino messaggio con cui Gesù proclamava la pari
dignità tra uomo e donna, dando luogo ad accuse di un certo maschilismo
più o meno mascherato da motivazioni religiose».

In questa argomentazione ci sono alcuni segnali problematici:
– la raffigurazione dei processi storici come effetto di forze impersonalisi siano affacciate forme di ingiusta subordinazione»;
– la sottovalutazione dell’entità del fenomeno e della sua continuità («accuse di un certo maschilismo»);
– la visione della Chiesa come unicamente influenzata dall’esterno e non come anche produttrice di simboli, discorsi, pratiche e mentalità caratterizzate da «ingiusta subordinazione» («che hanno avuto influsso anche all’interno della Chiesa»);e infine – o al principio? – la scelta di non dare un volto ai soggetti che nella Chiesa hanno ostacolato il messaggio evangelico sulla pari dignità tra i sessi. Ma che un volto ce l’hanno, ed è maschile.
Questo tipo di approccio segnala che il documento vaticano ha rinunciato ad avvalersi dell’ampio panorama di studi di genere che
in ambito teologico e religioso ne hanno già messo in discussione
metodo e merito; ma soprattutto non aiuta coloro che, nel campo
dell’educazione, lavorano per la prevenzione della violenza maschile
contro le donne, che oggi si nutre di recrudescenze del passato e di
nuovi, perversi modelli di genere che ragazzi e ragazze assorbono nei
luoghi di apprendimento informale, Internet in primo luogo.

MASCHILE E VIOLENZA NELLA CHIESA

Se invece come Chiesa imparassimo – le donne lo chiedono e lo fanno da molto tempo – a dare un nome ai soggetti,
se guardassimo senza timori i processi, se individuassimo senza
vergogna gli snodi della normalizzazione della violenza di genere nella
nostra storia religiosa, potremmo non semplicemente e benevolmente
concedere che certi progetti educativi sono “condivisibili” e
“apprezzabili”, ma porci in prima fila nell’impegno comune.
Non possiamo nasconderci che le resistenze a un percorso di questo tipo sono evidenti: la minimizzazione – e in alcuni casi la negazione – del fenomeno è tipica di diversi ambienti ecclesiali, alcune frange cattoliche sposano apertamente il revanchismo maschile, numerosi sono i più o meno consapevoli teorici del “se l’è
cercata”, abbondano le strategie di dislocazione spazio-temporale (la
violenza c’era prima, la violenza c’è altrove) e la violenza domestica,
nonostante i confessori ne siano informati, non scuote pubblicamente
menti e coscienze.
Certamente in questa difficoltà gioca il fatto che se nella Chiesa si
inizia a smontare la costruzione del maschile e la sua associazione con
la superiorità e il potere, si arriva inevitabilmente a toccare temi
molto sensibili, e lo stesso accade se si assume in modo adeguato il rapporto tra “natura” e “cultura”,
il quale – si tratti di individui o di formazioni sociali – è ben più
complesso di quanto i documenti ufficiali lascino intendere.
Tuttavia non c’è altra strada: infinite trappole abbiamo visto nascoste nella parola “amore”,
e nessuna generica educazione al rispetto avrà la benché minima
speranza di incidere sulle vite di ragazzi e ragazze se il mondo adulto,
quello ecclesiale compreso, non guarda in se stesso per mettere a nudo
le cause del non-rispetto e i mille modi – anche quelli più affabili o
paludati di lodi al “genio” – in cui ancora le sta alimentando e
tramandando.

UOMINI CHE DIFENDONO LE DONNE

A volte si vedono uomini cattolici che per affermare il loro essere
femministi difendono veementemente le donne e la loro causa scagliandosi
contro i propri simili ritenuti meno evoluti (o abbandonandoli al loro
destino). Ma forse quello di cui c’è bisogno è che si mettano invece al
loro fianco per sperimentare insieme, a partire da sé, un nuovo modo di essere maschi.
Perché, come ricorda Lorenzo Gasparrini (Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni), nessun uomo può sentirsi esonerato da questa fatica, nessuno nasce antisessista, migliaia di anni e il privilegio “naturale” alla nascita non si cancellano tanto facilmente.
E anche perché, come ha detto un amico proprio durante una delle
presentazioni del libro di Gasparrini, «le donne mi hanno messo di
fronte alle contraddizioni del patriarcato, e io ho
iniziato a “voler cambiare”. Ma non è questo “volere” che cambia la tua
vita e le tue relazioni. Il vero passaggio è stato scoprire che il primo
a perderci, in quel modo di essere uomo che mi era stato consegnato,
ero io».

 

>>> Per ascoltare l’intervento di Rita Torti nella trasmissione “Il mondo alla radio” di Radio Vaticana, clicca qui.